Vi è mai capitato di chiedervi se “tanti amici, nessun amico” possa essere un’affermazione con un qualche fondo di verità, soprattutto in un’epoca di social network e preponderanza di “amicizie” virtuali? Un nuovo studio torna ad esplorare le nostre reti amicali, cercando di capire a quante persone possiamo legittimamente assegnare l’importante, ma pesante, etichetta di amico/a.

Il tema spesso ritorna: chi sono veramente gli amici? Quali sono le caratteristiche che li contraddistinguono? Basta un normale confronto tra persone per capire come il concetto sia individuale: ognuno applica i suoi standard, non sempre affini a quelli altrui, specie nell’era dei social.

Una ricerca dell’Università di Oxford tenta di scavare nel complesso argomento  delle sfere di amicizia.

In quest’ambito, a cavallo fra Psicologia, Sociologia, Comunicazione e, da circa vent’anni, Tecnologia Informatica, molti sono stati i dibattiti attorno al cosiddetto “Numero di Dunbar”, teorizzato negli anni Novanta dallo Psicologo e Antropologo britannico Robin Dunbar. Secondo questo studioso, la nostra capacità cerebrale può accogliere con coscienza, al massimo, 150 relazioni.

Dunbar è più volte tornato a trattare questo argomento. Stavolta, per esempio, lo ha fatto insieme a Pádraig MacCarron e Kimmo Kaski per approfondire ulteriormente la teoria formulata anni fa attraverso l’analisi di sei miliardi di telefonate effettuate da 35 milioni di persone. Tali telefonate furono suddivise poi in base alla frequenza reciproca delle comunicazioni.

Un lavoro mastodontico iniziato nel 2007, addirittura prima dell’esplosione (almeno in Italia) di Facebook. Nel 2003 Dunbar aveva analizzato invece le cartoline di auguri natalizi in Gran Bretagna e successivamente aveva studiato le relazioni umane attraverso una ricerca sul rilascio delle endorfine in seguito ad un contatto fisico. D’altronde il nucleo fondante e l’impalcatura della sua ricerca prese avvio dagli studi sul grooming nei primati, cioè indagando i confini e le funzioni dei legami sociali attraverso la cura reciproca del pelo e del corpo nelle scimmie.

Secondo quello che scrive su “The New Yorker” Maria Konnikova, Psicologa e Scrittrice russo – americana, forse le affascinanti teorie di Dunbar potrebbero essere rimesse in discussione nell’epoca dei social network. Cerchiamo di spiegare meglio in cosa consiste il numero di Dunbar. Esso consiste in una serie di cifre che stabiliscono una gerarchia formata da 5 “amici del cuore”, 15 più stretti, 50 nella terza fascia e i restanti 80 a ruotarci intorno.

Grazie all’ultimo studio dello psicologo britannico, il nucleo degli “amici speciali” si confermerebbe formato da 4-5 persone. Sembrerebbe complicato andare oltre questo nucleo forte quanto alla capacità individuale di mantenere relazioni stabili e molto significative.

Potremmo chiederci quindi che valore e significato hanno tutti gli amici che magari abbiamo, in quantità spesso nettamente maggiore rispetto al numero di Dunbar, sui vari social che frequentiamo, come Facebook, Twitter, Instagram, e perfino su LinkedIn.

Possiamo anche domandarci se il modo prevalente di relazionarsi del nuovo millennio, fatto di virtualità, “condivisione” (talvolta seriale e distratta), potenziale onnipresenza e “supervisione” delle vite e delle emozioni altrui, ma soprattutto di rarefazione di aggregazione e reale contatto umano, stia portando ad una ipervalutazione dei rapporti e delle relazioni tra le persone, con il rischio che venga “gonfiata” la percezione rispetto all’idea e al concetto di amicizia, vicinanza e condivisione emotivo – affettiva.

In molti si sono posti e si pongono questi quesiti, tra gli altri Morten Hansens, docente dell’Università di Berkeley in California, secondo il quale i social hanno facilitato i contatti e le collaborazioni e ci hanno permesso un allargamento delle nostre cerchie amicali e professionali senza precedenti.

“Agevolare la collaborazione” però non equivale a trasformare automaticamente i contatti in amici, tanto che altri studi, come quelli dedicati a Twitter da Bruno Gonçalves o a Facebook da Nicole Ellison, hanno all’incirca confermato le tesi di Dunbar. L’affermazione di Hansen è stata quindi, almeno in parte, ridimensionata in modo significativo, e, soprattutto, è stata data diversa rilevanza ai contatti esclusivamente virtuali rispetto alle persone che frequentiamo davvero.

Ovviamente si possono avere diverse opinioni sui risultati di queste ricerche (qui solo accennate). Si può ipotizzare comunque che Dunbar esponga una visione condivisibile, soprattutto perché considera i social network, all’interno della prospettiva studiata, soltanto come facilitatori di contatti e “specchi” di un aspetto della situazione più generale e non come unica e “indiscutibile” fonte di valutazione o modalità di interazione tra gli esseri umani. Secondo lui Facebook ha avuto un grandissimo successo perché è essenzialmente un modo per “tenere traccia delle persone che altrimenti sparirebbero dalla nostra vita”.

Ognuno di noi, facendo un’analisi dei contatti che ha sui social network, potrà abbastanza facilmente notare come la maggior parte delle persone siano “amicizie” solo teoriche (almeno un 50% se non di più), cioè instaurate quasi esclusivamente in maniera virtuale; infatti riflettendoci un attimo è facile ammettere che i contatti reali (faccia a faccia o comunque vissuti in situazioni concrete) con queste persone possono contarsi sulle dita di una mano, se non addirittura essersi verificati solo in una circostanza. Per la restante parte (l’altro 50%), più o meno la metà sono rappresentati da persone con le quali abbiamo una buona interazione, seppur non in modo costante. Per la rimanente quota (circa il 25% del totale), una parte prevalente è rappresentate da persone con cui abbiamo un rapporto significativo ma non assiduo, mentre soltanto per una ristretta cerchia di persone possiamo dire di riuscire ad avere con loro rapporti significativi e profondi oltre che costanti.

Certamente con la quasi totalità delle persone con cui abbiamo un’amicizia virtuale si può affermare che ci sia una affinità caratteriale, una concordanza di gusti, esperienze (passate o presenti) condivise, interessi comuni, eccetera, ma da qui a poter considerare tutti come persone importanti nella propria vita la distanza è molta. Intendendo dire che per le nostre reali necessità o difficoltà, emotive o pratiche, difficilmente chiederemmo aiuto, sostegno o confronto a qualcuno della nostra “lista” in maniera casuale, ma ragionevolmente ci rivolgeremmo a quei pochi “punti fermi” che ci hanno sempre sostenuto e incoraggiato e che sono fedeli “compagni” del nostro cammino. Naturalmente non che la cerchia dei best friends rimanga inalterata durante il corso della vita, ma, più o meno, resterà invariato il numero di persone che la costituiranno e dalle quali riceveremo  (e alle quali riusciremo a ricambiare) quell’energia, quell’amore, quella condivisione e quel sostegno che sono caratteristiche essenziali di una vera amicizia.

Probabilmente la “creatura” di Zuckenberg ha avuto grande successo perché alla fine punta con astuzia sulla nostalgia, riportandoci alla memoria persone, emozioni e situazioni passate, illudendoci, inoltre, di regalarci un’onnipresenza sulle vite altrui e l’indissolubilità di tutto ciò che fa o ha fatto parte in un modo o nell’altro della nostra vita.

In fondo, però, questa società digitale e “l’incombente” realtà virtuale vogliono forse farci credere che l’impegno necessario per costruire legami concreti (faccia a faccia) sia ormai uno sforzo quasi inutile. E’ un po’ come se si volesse togliere ad un bambino la gioia nello scrivere una lettera a Babbo Natale per chiedere dei regali, facendogli vedere, in maniera realistica, ma forse crudele, che l’impegno messo nell’immaginare, nello scrivere, nell’attendere e nel veder alla fine concretizzato un desiderio, possa essere semplicemente sostituito da un “click” su una piattaforma di e-commerce.

Anche se la tendenza non è certamente questa, è importante rendersi conto che non basta un “Like” per essere vicino a qualcuno, condividerne le gioie, i dolori o le esperienze, che non basta accettare una “richiesta di amicizia” per essere davvero Amici, che non basta starsene in una stanza con un computer per conoscere davvero il mondo e che non è sufficiente essere in un luogo con qualcuno per essere insieme a qualcuno (come il neonato termine phubbing insegna molto bene).

“La quantità di capitale sociale di cui disponiamo è più o meno fissa – ha spiegato lo studioso britannico – perché coinvolge un investimento di tempo. Se guadagni collegamenti con più persone finirai per distribuire questo quantitativo in maniera più sottile e sparpagliata. Alla fine il capitale per ciascuno sarà più basso”.

Cosa può significare questo? Forse che i social network, nell’illusione di rendere la nostra mente più elastica, regalandole potenzialmente più conoscenze e/o amicizie, rischiano, invece, di impoverire o svuotare progressivamente di significato anche i rapporti più stabili e rilevanti, quelli della vita reale, ai quali avremo così meno tempo da dedicare.

Il paradosso dell’era digitale e degli innumerevoli social che la caratterizzano potrebbe quindi essere quello di renderci in futuro assai meno vicini gli uni agli altri, sempre meno “animali sociali” rispetto a quanto non lo eravamo in passato, quando per far nascere, crescere e consolidare un’amicizia dovevamo conoscere, sperimentare e coltivare un reciproco rapporto umano con alla base intimità, condivisione e fiducia.